Intervista al Filosofo Liberale Dario Antiseri

Vi lascio l’intervista del giornalista dell’HuffPost Nicola Mirenzi al Filosofo Liberale Dario Antiseri, ci sono molti spunti interessanti, per vedere l’articolo originale andate qui, è buona lettura.

Il padre faceva l’operaio, la madre lavorava nei campi, lui invece voleva diventare medico, ma, siccome non se lo poteva permettere, ha finito per fare il filosofo. “Mi dica pure quali sono i suoi problemi filosofici”, risponde Dario Antiseri quando lo chiamo per cominciare l’intervista, come se fosse l’inizio di una visita specialistica con un medico-filosofo, un ibrido tra l’una e l’altra strada del bivio della sua vita. “Quando andai all’Università di Perugia per iscrivermi, grazie a una borsa di studio che avevo vinto, trovai da una parte una fila lunghissima, dall’altra soltanto due o tre ragazzi. La prima era la fila per la facoltà di Medicina. La guardai e immaginai che, come minimo, sarebbero stati necessari sei anni di affitto per la casa, sei anni di spese, sei anni di sacrifici da chiedere ai miei genitori. Una prospettiva terrificante. ‘L’altra – chiesi – cos’è?’. ‘È filosofia’, mi dissero. E pensai: ‘Be’, se c’è così poca gente, non sarà così difficile cavarsela in fretta’”.

Oggi, la storia della filosofia che Antiseri ha scritto insieme a Giovanni Reale, “Il pensiero Occidentale”, è un libro di testo adottato in molti Paesi del mondo: “Di recente, mi hanno chiamato per informarmi che è stato tradotto anche in Angola”, mentre l’Università di Mosca gli ha conferito una laurea honoris causa per ringraziarlo. Antiseri è il maestro di due generazioni di liberali: quelli cresciuti negli anni settanta, a cui ha insegnato Popper, e quelli cresciuti nei due decenni successivi, a cui ha insegnato Friedrich von Hayek. Chiunque voglia accostarsi al liberalismo in Italia non può prescindere dalla sua opera. “Nel nostro Paese”, dice, “c’è la bizzarra idea di ritenere il liberale un difensore dei ricchi, ma nessun pensatore liberale ha mai considerato la libertà slegata dalla solidarietà”.

Dopo l’ebbrezza seguita alla caduta del Muro di Berlino, in cui non c’era nessuno in Italia che non si proclamasse liberale, i liberali sono tornati a essere quello che sono spesso stati: una minoranza. “Quanti sono oggi in parlamento? E nelle case editrici? Il pensiero liberale è cresciuto nel nostro Paese senza protezioni politiche. In questo senso, si può dire che è stato isolato. Che non significa, nel mio caso, che sono stato solo. Io ho dialogato sempre con tutti, da Gianni Vattimo al Cardinal Ruini. Ma senza mai avere una copertura politica”.

Lei come è diventato liberale?

Sono nato a San Giovanni Profiavenea, un paese nella periferia di Foligno. La regione, l’Umbria, era tutta rossa ed erano rossi anche i miei, di tradizione socialista. Grazie ancora a una borsa di studio, dopo essermi laureato con Pietro Prini a Perugia, andai a studiare a Vienna. Avevo scritto la tesi sul passaggio dal primo al secondo Wittgenstein e, in Austria, conobbi Karl Popper, mentre seguivo i corsi di logica di Kurt Christian e quelli di filosofia della scienza di Bela von Juhos, l’ultimo del Circolo di Vienna rimasto in Europa.

Conobbe Popper personalmente? 

Sì. Verso la fine di marzo del 1964, venne all’Istituto di filosofia per tenere un seminario, e von Juhos mi presentò a lui. Avevo letto alcuni scritti di Popper in tedesco, ma ascoltarlo mi impressionò.

Cosa la impressionò?

La forza logica. Ricordo che a un certo punto gli sollevarono un’obiezione forte, era quasi un attacco. Lui accolse la contestazione, la perfezionò intellettualmente, per renderla ancora più rigorosa, poi la colpì al cuore, con estrema freddezza e precisione. Mi sconvolse.

Lo rivide più? 

Certo. Una volta lo incontrai anche a Bari. Non abbiamo mai smesso di scambiarci lettere fino alla sua morte. Le ho qui in casa, anche se non mi piace parlarne.

Cosa cambiò tra la prima e le altre volte che lo vide?

Cambiò che nel frattempo ero diventato popperiano. Dopo Vienna, continuai a studiare a Münster e Oxford, poi tornai in Italia per insegnare, prima a Roma, poi all’Università di Siena, infine a Padova, dove ho insegnato undici anni Filosofia della scienza. C’era stato di mezzo il Sessantotto, con le sue turbolenze e i suoi furori. I giovani del Movimento interrompevano le lezioni urlando che l’Università era fatta per i ricchi, e se provavi a discutere, a raccontare che ‘veramente la mia famiglia non era per niente ricca’, ti accorgevi subito che non c’era verso. A Padova, più tardi, Autonomia Operaia prese di mira Guido Petter, un professore comunista che era stato partigiano. Difendeva l’Istituzione da quelli che chiamava i ‘giovani dell’ombra’. Un giorno lo aspettarono sotto casa e lo picchiarono. Per fortuna niente di più, mentre ad Angelo Ventura gli spararono.

Lei aveva paura?

L’avevo. Come facevi a non averla? Anche se non ero esposto politicamente, ero esposto soprattutto culturalmente.

Che significa? 

Significa che quando finalmente uscì “La società aperta e i suoi nemici” di Popper (il primo volume nel 1973, il secondo nel 1974) non ci fu una bella accoglienza. Criticare il marxismo, a quei tempi, significava ledere la verità e la giustizia. Ho qui i giudizi che vennero dati. “Rinascita”, la rivista politico-culturale del Partito comunista, scrisse che Popper era “un dilettante” e “Critica Marxista” definì il modello della società aperta “una combinazione irrazionale di fideistiche assunzioni metafisiche e incoerenti correlazioni analogiche”.

Che si aspettava?

Qualcosa di più almeno dal mondo crociano. Rosario Romeo scrisse che “farebbe un assai cattivo affare chi scambiasse quella di Popper con la nostra tradizione liberale”. La posizione di Renzo De Felice fu più sfumata, ma non dissimile. Mentre Alfredo Parente concludeva la sua analisi dicendo: “Popper non ha capito nulla”.

Tutti contro?

Non allo stesso modo, naturalmente. I marxisti furono terribilmente ostili, i crociani pieni di dubbi, i cattolici indifferenti, con un’eccezione spettacolare: “L’Osservatore Romano”, la cui copia spedii a Popper.

Oggi, invece, Popper è venerato. Tutti citano “La società aperta”.

Allora, al contrario, essere popperiani era per spiriti indipendenti e, attenzione, l’ostilità non era per l’opera di Popper in sé, tanto è vero che altre sue opere erano state già tradotte e apprezzate, l’ostilità era proprio per “La società aperta e i suoi nemici”, la sua opera politica.

Che intende dire con ostilità?

Che Norberto Bobbio ne aveva proposto la traduzione alla casa editrice Einaudi ed Einaudi l’aveva rifiutata, in quanto testo anti marxista.

Quindi come fa a uscire questo libro?

Esce perché ogni volta che mi capitava di andare a Roma facevo un salto dall’editore Armando e gli dicevo: “Deve pubblicare questo libro. È uno dei libri più importanti del pensiero politico occidentale ed è incredibile che non ci sia una versione italiana”. Un giorno Armando, ancora pieno di dubbi, chiamò un importante filosofo, di cui non le dirò il nome, e gli disse: “C’è qui Antiseri che insiste a dirmi che devo pubblicare ‘La società aperta’. Lei che dice?”. ‘Dico’, rispose quello, ‘che Antiseri è un ragazzo entusiasta, ma Popper è un pover’uomo’.

Poi, però, il libro uscì.

Alla fine Armando si decise e il libro venne pubblicato.

Con Hayek andò allo stesso modo? 

Venne pubblicato più facilmente, perché a quel punto si erano aperte alcune porte. Incontrai Hayek, a Spoleto, nel 1984. Espose a me e Angelo Petroni gli argomenti di fondo del libro che stava ultimando, “La presunzione fatale”, il suo testamento intellettuale. Trascorremmo insieme un’intera giornata, che ricordo con animo pieno di gratitudine. Ci parlò a lungo anche di Kelsen, che era stato suo maestro, e che aveva cominciato a criticare fin da studente.

Perché è difficile essere liberali in Italia? 

Abbiamo avuto delle figure importanti, come Don Sturzo e Luigi Einaudi, ma non si è mai formata né una destra né una sinistra liberale. Resistono semplificazioni insopportabili. Per esempio, quella dell’incompatibilità tra lo stato liberale e l’ uguaglianza. Mentre, semmai, è vero il contrario. ’È indubbio – dice Popper –, che se la libertà va perduta, tra non liberi non ci sarà nemmeno l’uguaglianza, ma è anche vero – continua – che la libertà non può essere conservata senza migliorare la giustizia distributiva, ovvero senza mantenere l’uguaglianza economica”. Potrei citare altri passi di Einaudi o di Hayek che sono altrettanto impressionanti.

Lei cita tutto a memoria?

Non tutto, ma con Popper qualcosa posso azzardare.

Che significa essere liberali in politica? 

Significa sapere che il potere in generale tende a corrompere, e che il potere assoluto tende a corrompere assolutamente, dunque la domanda da farsi non è chi deve detenere il potere, ma come controllare chi il potere lo detiene, chiunque esso sia.

Questo, però, non rende più uguali.

Ma garantisce le condizioni per cui lo si può essere. La libertà ha varie declinazioni: è libertà di mercato, di fede, di stampa, di parola, di istruzione, ma ancora, per arrivare all’uguaglianza, è libertà dalla miseria, dall’ignoranza. Salvare la libertà significa salvare ciascuna di queste declinazioni, perché la libertà non si perde mai tutta insieme, si perde un pezzo per volta. Per questo il prezzo che c’è da pagare per averla è la continua sorveglianza.

È preoccupante, per un liberale, assistere oggi al ritorno di uno stato forte?

Nient’affatto. È un’altra leggenda quella seconda cui meno stato ci sarebbe meglio sarebbe per un liberale. Il liberale non è un libertario, né un anarchico. Al contrario, in questo momento è fondamentale che lo stato protegga la vita e la salute dei cittadini con i mezzi che ha disposizione.

La salute viene prima della libertà?

Oggi la salute viene prima di tutto, ma questo non significa che la libertà sia stata negata. Al comando non vedo un dittatore e non mi sembra che lo Stato mi stia dicendo: ‘Non uscire di casa sennò ti ammazzo’. Dice piuttosto: ‘Non uscire di casa sennò ammazzi gli altri’. Una persona che non rispetta le regole, che magari se ne va in giro infetto, infettando gli altri, è un irresponsabile, non è un liberale.

Cosa le ha fatto pensare la pandemia?

Che l’umanità ha un’occasione per essere meno stupida e meno cattiva.

Come?

Pensi alla quantità di risorse che l’uomo spende per armarsi contro l’altro uomo. Immagini il costo di una portaerei, di un sottomarino, di un cacciabombardiere, di un missile, di una bomba. Non le sembra di una stupidità infinita l’idea di spendere tutti quei soldi per ammazzare gli altri? Non le sembra che sia ancora più stupido oggi, se pensa al fatto che il virus ha scatenato una guerra contro la specie umana, tutta la specie umana, mettendo in ginocchio interi popoli, distruggendo posti di lavoro, intaccando la possibilità di un’istruzione adeguata?

Secondo lei, l’umanità sta collaborando poco? 

Hanno collaborato senz’altro gli scienziati. Prodigiosi nel riuscire a individuare dei vaccini nel giro di pochi mesi. È un fatto che non era mai avvenuto nella storia dell’umanità. Rifiutare il vaccino non significa semplicemente rifiutare un’iniezione, significa rifiutare ciò che di meglio l’umanità ha prodotto nella sua storia, significa buttare via quel poco di ragione che abbiamo e affidarsi ai sentimenti i più irrazionali. Per questo i novax mi appaiono completamente fuori dal mondo.

Che cos’è un’idea?

È il tentativo di trovare la soluzione a un problema. Ogni ricerca scientifica, come ogni speculazione filosofica, non è altro che questo: il desiderio di trovare la risposta a un quesito.

Qual è il suo problema oggi?

Negli ultimi anni è stato, sempre di più, il problema religioso. Sono cattolico e mi auguro di morire nella fede. Bobbio diceva che la religione esiste perché c’è una domanda a cui la scienza non si può avvicinare e che la filosofia può solo porre, la domanda sul senso della vita. Ecco perché c’è la scelta di fede.

Perché sceglie di credere anziché no?

Perché ne ho bisogno, risponderebbe Kierkegaard. E perché questo bisogno non è un bisogno qualsiasi: è il bisogno di dare senso all’intera esistenza. L’ateo sceglie l’assurdo e lo rispetto. Quello che non accetto è che si ritenga l’ateismo più fondato razionalmente della fede. Non lo è. L’ateismo, come la fede, non è una scienza, è una scelta.

Ai perplessi che dice?

Che oggi siamo tutti perplessi, perché – come spiega la più significativa opera di filosofia ebraica medievale, “La guida dei perplessi” – l’esitazione nasce da un eccesso di informazioni, non da una mancanza.

Praticamente internet. 

Appunto.

E quale potrebbe essere la guida ai perplessi di oggi? 

Il metodo scientifico, l’unico che permette di controllare e verificare ogni informazione.

Si sente un vinto o un vincitore?

In che senso?

Da liberale, intendo.

Mi sento uno che, combattendo, è riuscito a far inserire nelle biblioteche italiane i libri che sono necessari (a un giovane che lo volesse) per conoscere il pensiero a cui ho dedicato parte della mia vita.

Crede che il mercato sia sempre buono?

Credo che se qualcuno realizza profitti vendendo armi oppure spacciando droga è disumana la sua etica, non il mercato, dunque da riformare sarebbe semmai la prima non il secondo.

Chi è la persona liberale?

La persona consapevole della propria e dell’altrui fallibilità e della propria e dell’altrui ignoranza.

Lei ha fallito?

Certo che ho fatto degli errori scrivendo e pensando, e sono stato grato quando qualcuno è riuscito a farmi vedere dove sbagliavo.

E nella vita?

Se non le dispiace, di questo preferirei parlare con il mio confessore.

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